Qualche anno fa ho scritto un racconto - la Pupa andava ancora alla scuola materna, dunque doveva essere il 2009 o il 2010 - e poi l'ho lasciato lì. Mi sembra che sia arrivato il momento di pubblicarlo, dunque eccovelo. È un po' lungo, ma spero vi piaccia.
Save a prayer (Duran Duran)
Stamattina
portavo all'asilo la Pupa e assieme ascoltavamo la radio, è una cosa
che le piace molto. A un certo punto ho cambiato stazione perché
davano Firenze
(canzone triste) di
Ivan Graziani e al settimo giorno consecutivo di pioggia mi è
sembrato davvero troppo.
Certe
cose ti colpiscono quando meno te l'aspetti. Come le note familiari
di una ballata che scivola via interrotta solo dal rumore dei
tergicristalli. «And I know there'll be/no more tears in Heaven»,
eccetera. Ho chiesto alla Pupa se le piaceva la voce di quel signore,
e lei mi ha risposto: «Molto. Mi sembra morbida». La Pupa - come
parecchi bambini di quasi cinque anni - ha lievissimi difetti di
pronuncia che evito accuratamente di correggere. Perciò, per essere
precisi, quel che le è uscito è stato: «Monto.
Mi fembra
morbida».
I Don't want to miss a thing (Aerosmith)
Nel
febbraio '98 avevo appena finito l'università e lavoravo da pochi
mesi nel settore spettacoli di un quotidiano. Mi pagavano diecimila
lire a pezzo, diciottomila i più lunghi; su Eric Clapton di
passaggio a Milano per presentare il nuovo album, Pilgrim,
contavo di tirar fuori un bel servizio. Ricordo che stavo per andare
a vivere da sola, e che la sera prima della conferenza stampa, mentre
io preparavo scatoloni e valigie, mia madre alzò gli occhi dal libro
che stava leggendo per chiedermi: «Sei emozionata?». Sono quasi
sicura che non si riferisse al trasloco.
Difficile
che i giornalisti chiedano autografi ai personaggi che intervistano.
Alcune giustificate eccezioni sono previste. Paul McCartney, Mick
Jagger, ma anche Laura Pausini se i tuoi nipotini hanno perso la
testa per lei. In fila per uno scarabocchio di Eric Clapton alla fine
dell'incontro eravamo almeno una trentina, ciascuno con la sua copia
del cd promozionale in mano. «Thanks. My name's Paola, P-A-O-L-A». A
pensarci bene una cosa che non so è dove si trovi, oggi, quel cd
firmato.
Cosmic girl (Jamiroquai)
Un'ora
dopo, mentre tornavo in redazione, mi squillò il cellulare. Non
erano ancora i tempi in cui sul display appariva il numero del
chiamante. «Buongiorno, sono la manager di Eric Clapton. Eric l'ha
notata e vorrebbe il permesso di telefonarle, se lei è d'accordo».
«Sì, certo, come no. Gli dia pure il mio numero, nessun problema,
molto gentile».
Arrivata
al giornale me la presi con i colleghi. «Siete dei deficienti,
dovete smetterla di prendermi in giro. Lo sapete che mi piace coso
e vi divertite alle mie spalle».
Loro
mi guardarono senza capire. «Be', è che ho ricevuto la telefonata
di una che si spacciava per sua manager».
«...»
«Cioè,
vorreste dire che non siete stati voi?»
«...»
«Non
vi credo. Guardate che a me non la si fa».
Smells like teen spirit (Nirvana)
La
mattina dopo stavo percorrendo in auto il cavalcavia più lungo della
città – come al solito andavo verso la redazione del giornale, in
pratica vivevo lì – quando mi squillò di nuovo il cellulare. Non
mi ricordo bene se all'epoca telefonare al volante non era
considerato un gesto così grave o se io, avendo venticinque anni,
semplicemente me ne fregavo.
«Hi,
this is Eric».
«...»
«Hi,
you there?»
«...»
«Paola?»
Eric
Clapton – come molti inglesi di qualunque età – aveva lievissimi
difetti di pronuncia che io evitavo accuratamente di correggere.
Perciò,
per essere precisi, quel che gli uscì fu:
«Pòla?»
Good vibrations (Beach Boys)
Al
telefono in qualche modo riuscimmo a decidere di vederci il giorno
dopo, un sabato, a pranzo. Passai ore a cercare qualcosa di carino da
mettermi. Per fortuna all'epoca facevo la segretaria per un Rotary
Club; e così mi presentai all'appuntamento vestita da segretaria del
Rotary Club.
La
pizzeria in pieno centro, scelta da lui, era uno di quei posti
frequentati da vip, le pareti piene di foto del gestore del locale
ritratto assieme a calciatori, attori, conduttori tv. Nemmeno eravamo
entrati e già tutto il personale ci aspettava schierato: un tripudio
di camerieri, bariste, maitre, responsabili di sala, tutti in fila
rigidi come omini del calcio balilla, a farci strada. Che poi, che
bisogno c'è di fare strada a qualcuno in un locale di trenta metri
quadrati? Bisogna che tu soffra di maculopatia degenerativa oculare,
per non capire dove devi andare.
Era
– anche – uno di quei posti in cui pur di fare qualche coperto in
più pigiano i tavolini gli uni addosso agli altri tipo vagone della
metropolitana all'ora di punta. Quel giorno, in quel contesto, ero
più rigida dei camerieri rigidi, ma negli anni ogni volta che ci ho
ripensato ho riso al pensiero che invece per il nostro tavolo avevano
riservato un angolo appartato, intere galassie distante dagli altri.
E sulla tovaglia avevano appoggiato un bigliettino: «Dottor Clapton,
X 2». Pensai: Dottor
Clapton?
Kiss (Prince)
Nonostante
le mie gravi incertezze linguistiche, i ventotto anni di differenza e
il fatto che lui fosse il Dottor Clapton, l'incontro andò benino.
Riuscii a ingoiare un'intera fettina di pizza, discutemmo di un
anello che portavo, di una t shirt che indossava, mi chiese tante
cose sulla mia famiglia e sui miei genitori. Forse parlammo un
pochino anche di musica. Mi disse che amava l'Italia e che aveva
tanti amici a Milano, che gli piacevo molto e che avrebbe voluto
rivedermi, magari a Londra, chissà. Nel caso capitassi da quelle
parti, che gli facessi il favore di avvisarlo. Mi salutò con un
bacio veloce sulle labbra che mi lasciò di stucco, ma in seguito
capii che lui baciava così le persone per affetto – anche la
signora che gli puliva casa, per dire.
Due
venerdì dopo, il giornale per cui lavoravo fallì e chiuse. Con i
colleghi andammo a ubriacarci di grappa nel localetto di un amico.
Incoraggiata dalla Nonino e da quei burloni con cui fino a due ore
prima avevo lavorato, chiamai Eric Clapton alle undici di sera.
(Io):
«Ciao, mi chiedevo cosa fai domenica».
(Lui):
«Niente. Devo portare mia madre in un posto al mattino, poi sono
libero».
(Io):
«Ok. E lunedì, martedì, mercoledì, eccetera?»
(Lui):
«Durante il giorno le prove del tour mondiale. Ma non esco
prestissimo al mattino, e verso le cinque del pomeriggio sono già a
casa. Poi la sera sono libero. Vieni a trovarmi?»
Romeo and Juliet (Dire Straits)
Nel
1998 non si compravano biglietti aerei last minute su internet.
Volare costava abbastanza, e nonostante ciò il sabato mattina trovai
tre amici disposti a venire a Londra con me il giorno dopo. Loro
avrebbero pernottato in ostello; io, secondo gli accordi, in una
delle case di Eric Clapton. «Non sta bene che io ti proponga di
fermarti da me». Lui quell'anno faceva parte della commissione che
giudica gli Oscar, e assieme guardammo un'ira di Dio di roba a
cominciare da Titanic,
sul mega schermo di uno dei salotti di casa sua, mangiando biscotti
Digestive di cui lui era un grande fan. Mentre Jack-Di Caprio moriva
congelato nell'oceano mi guardò con aria intensa, come colto da un
trasalimento: «In effetti la mia casa è molto grande. Se non lo
trovi offensivo o poco opportuno posso cedertene un'ala, senza che tu
vada a stare da un'altra parte».
Wish you were here (Pink Floyd)
Eric
Clapton l'ho sempre chiamato Eric Clapton. Mai «Eric», men che meno
con un soprannome. «Che fai il prossimo weekend?». «Viene a
trovarmi Eric Clapton». «Bella maglietta, dove l'hai presa?». «Me
l'ha regalata Eric Clapton». Per attirare la sua attenzione
tossicchiavo o facevo un gesto con la mano. A volte mi intimidivo. A
volte lui si accorgeva che ero intimidita e rideva. Mi sentivo sempre
un po' fuori contesto: un'uggiosa domenica londinese andammo a un
ritrovo degli alcolisti anonimi, una specie di festina per la fine
del percorso terapeutico. Mi mise di fianco a uno stoccafisso
(«Paola, Nick. Nick, this is Paola») che beveva succo di mango e
che trovavo noiosissimo. Dopo un po' mi chiese: «Ma è famoso anche
da voi in Italia?». Capii in quel momento che era Nick Cave.
No woman no cry (Fugees)
Cose
belle che si facevano con Eric Clapton: sfida a chi immerge il
maggior numero di biscotti Digestive nel tè e poi mangia la
brodaglia senza vomitare. Partite spietate e interminabili di calcio
balilla in cui io venivo invariabilmente stracciata nonostante gli
anni trascorsi a gareggiare in spiaggia nel ruolo del portiere.
Sentirlo canticchiare Layla
mentre scendeva le scale di casa mia. Ascoltarlo suonare la chitarra
seduto sul divano. Andare al ristorante a Milano prenotando sotto
falso nome per avere dei tavoli normali. A Londra invece era meglio
prenotare col nome vero perché gli inglesi con lui sono molto
garbati.
Love is a stranger (Eurythmics)
Sia
io che Eric Clapton siamo del segno dell'Ariete. Testardi coraggiosi
generosi e impulsivi. Acuti e ironici. Quando lui veniva in Italia, i
miei amici mi pregavano di sganciare il nome del locale in cui
saremmo andati, per potersi imbattere «accidentalmente» in noi.
Deve aver pensato che Milano sia microscopica, o che io conoscessi
decine di migliaia di persone, perché ogni volta che uscivamo
incontravo qualcuno. Per caso.
Un
mio amico, oggi noto giornalista musicale, all'epoca mi prendeva in
giro per questa mia frequentazione. Una volta lo incontrò mentre era
con me e cadde ai suoi piedi, in ginocchio, poi gli prese la mano.
Abbastanza imbarazzante, ma Eric Clapton si inginocchiò a sua volta
all'istante e i due restarono lì a guardarsi, gli occhi a un metro
da terra, mano nella mano. Ariete=acuto e ironico.
(I can't get no) satisfaction (Rolling Stones)
Presto
mi resi conto che non saremmo andati da nessuna parte. Il problema
era che non riuscivo a capire se mi interessasse l'uomo o se invece
il fatto che, insomma, «Eric Clapton is God». La seconda ipotesi
però era più probabile. E mentre mi rimbalzavano in testa il suo
anno di nascita e i nomi delle donne che aveva amato – Sheryl Crow,
Naomi Cambpell, Lory Del Santo con la sua tragica storia – mi uscì
finalmente un patetico discorsetto: «Sai, non voglio essere una tra
le tante». Lui provò a opporsi. Aveva intenzioni serie, disse. Non
gli credetti e, insomma, lo lasciai. Con grave imbarazzo restai a
Londra altri due giorni a imbottirmi di Digestive; lui aveva messo il muso, mi rispondeva a monosillabi e per indispettirmi si
riempiva la casa di certi artisti giapponesi che mi stavano anche molto antipatici. Questa del muso è una cosa che oggi
capisco – l'orgoglio ferito, il maschio adulto eroe della chitarra
e del rock liquidato da una ragazzina, eccetera – ma all'epoca mi
fece uscire di testa.
Respect (Aretha Franklin)
Sull'aereo
di ritorno da Londra pensai con insistenza per tutto il tempo:
«Voglio precipitare». Invece atterrai a Milano e con
l'aiuto di un amico interprete italiano-inglese gli scrissi una
lettera formalmente impeccabile e straripante di sdegno. Dopo pochi giorni
mi spedì indietro un pacco del tutto inatteso, con delle corde per
basso marca D'Addario (gli avevo accennato al fatto
che mio fratello, musicista in erba, le sognava, ma che per lui erano
davvero troppo care) e un biglietto ragionevole e affettuoso che
tra le altre cose diceva: «Mistakes and misunderstandings are always
possible, when two people get to know each other».
Bonus track: New York mining disaster 1941 (Chumbawamba)
Frequentando
Eric Clapton ho imparato diverse cose importanti, tra cui che la
parola «misunderstanding» ha un bellissimo suono e che le persone intelligenti sanno
ammettere di aver frainteso una cosa anche se hanno una certa età. Poi, che
dovevo assolutamente studiare benissimo l'inglese, cosa che ho fatto. Infine, che quando mi aveva detto «Ho intenzioni serie» forse non mi stava prendendo in giro. Infatti pochi anni dopo ha
sposato una ragazza americana non famosa, di un anno più giovane di me, da cui
ha avuto tre pupe femmine. Lei faceva la hostess a un congresso in un
grande albergo americano, lui aveva preso una stanza in
quell'albergo, e si sono conosciuti così.
I
dettagli del loro fortunato incontro me li ha raccontati proprio Eric
Clapton anni dopo, quando ci siamo incontrati per un caffè. In
quell'occasione mi ha anche confessato di avermi visto una volta in
Autogrill – io, per la cronaca, stavo andando per lavoro a un
concerto di Nek – ma di non aver avuto il coraggio di fermarmi,
perché ero in compagnia di un ragazzo. Ho molto apprezzato la
delicatezza, ma a posteriori dico che sarebbe stato bello salutarlo,
quella volta, sulla Milano-Modena.
Soundtrack: Mentre
scrivevo questo racconto ho ascoltato Songs
from the Labyrinth,
reinterpretazione della musica di John Dowland (vissuto nel '500) ad opera di Sting. I titoli delle canzoni che avete
letto sopra invece sono quelli di una cassetta ingenuissima che avevo
inciso per Eric. Non so cosa penserete di me a questo punto, però
finalmente sono riuscita a togliergli il cognome.