Anche se lavora fuori casa, l’italiana media svolge mansioni domestiche 80 minuti al giorno più del proprio partner: lo dice una ricerca dell'Università Bocconi, e in ogni caso sono questioni su cui ultimamente siamo chiamate a riflettere molto. «Una bella ora e 20 di frenetico sciacquare, riordinare, rassettare, prima o dopo aver dato il proprio contributo al Pil», scrive la mia collega Silvia Orlandini su Gioia: «sulle spalle delle donne, occupate o no, grava il 75 per cento del lavoro domestico, inteso come cura della casa, dei bambini e degli anziani». E solo la settimana scorsa, sempre per il mio giornale, ho intervistato Loredana Lipperini, che in questi giorni ha pubblicato Di mamme ce n'è più d'una (Feltrinelli). Leggetelo.

Il problema è che in Italia, negli anni Dieci del terzo millennio, se sei donna "devi" essere madre. Questo pensa la gente. E, soprattutto, devi esserlo bene. Il che accade anche all'estero, a dir la verità: la copertina di Time che vedete qui sopra è stata pubblicata nel maggio 2012 e ritrae una donna vera, una madre (intendo dire che non è una modella, anche se lo sembra) che allatta suo figlio di quasi quattro anni. Condizione essenziale, come spiega lei stessa, «per farlo crescere sereno». Tornando a noi, e alla ricerca dell’Università Bocconi, addirittura l’81,4 per cento degli intervistati è convinto che un bambino in età prescolare soffra se la mamma lavora. Come si spiega che invece, nell’Unione europea, questa percentuale scenda al 55,6 per cento? Il "trucco" forse sta nel cominciare con il piede giusto (cioè sbagliato): «In Italia le donne sono il 60 per cento degli studenti universitari, ma il 22 per cento decide di non iniziare nemmeno un percorso professionale», mi ha spiegato la Lipperini alzando un sopracciglio mentre addentava un rombo in crosta, un sabato a pranzo.
Durante il Festival di Sanremo, pochi giorni dopo Ho incontrato due mamme blogger che conoscevo già e che, vedendomi, mi hanno chiesto: «E con i bambini come fai?». «Esattamente come fate voi», ho risposto. Ma la domanda mi ha colpito moltissimo: a un padre in trasferta, nessuno si sognerebbe di porla.
Mentre i dati mi scivolano davanti agli occhi Al solito, mi si ribadisce che in Svezia e in Norvegia si sta molto meglio. Riviste e ricerche mi invitano a riflettere: la condivisione - la parità - passa anche dall'affidare il biberon per nutrire il Pupo al maschio (adulto) di casa; dal mettergli in mano una scopa e uno straccio, almeno ogni tanto. Conosco però almeno un blog, che non citerò, in cui resiste e s'amplifica il mito della moglie-mamma-geisha, eroica, insostituibile, che accoglie ogni sera il ritorno del guerriero stanco con un grande sorriso, il trucco rifatto, la cena servita, in grembiule e giarrettiera, «perché i maschi si sa, poveretti, e poi in fondo bisogna capirli». È un blog seguitissimo.
Mi chiedo sempre più spesso Quanto sia colpa anche nostra, anche mia. I pensieri s'intrecciano. Il Pupo ha 40 di febbre per la tonsillite, delira, alle due e mezza di notte si sveglia e chiede con voce cristallina: «Bisogna studiale molti anni pel diventale pompiele?». Normalmente adora la compagnia di suo padre, negli ultimi giorni invece cerca sempre me, mi chiama mammina, mi telefona al lavoro solo per mandarmi dei baci. Mi dice: «Sei bella, hai la pelle come di plimavela». Sono insonne da giorni, esausta. Assecondo stregata le sue richieste da donna incinta: «Puoi andale al supelmelcato a complalmi il cocco?». Sono le sette di sera e sono ancora in ufficio, a mescolare i sensi di colpa al sollievo per aver finito un lavoro importante. Mio figlio stamattina mi ha detto: «Se puoi, ti plego, tolna quando fuoli c'è ancola la luce». Oggi non ce l'ho fatta. A suo papà, del resto, non l'ha nemmeno chiesto.