Alla sera della vita, saremo giudicati sull'amore
Eccoci, finalmente. «Il terzo travaglio può essere un po' noiosino», aveva profetizzato l'ostetrica del mio consultorio. In effetti. Tutto è cominciato lo scorso lunedì, con contrazioni sporadiche e un diffuso mood da la-Mia-Ora-è-Giunta. Giusto il tempo di prendere al volo la benedizione natalizia dal prete del quartiere, cenare, mettere a letto i Pupi alle 19.38 dichiarando che erano le nove di sera, denunciare a Mike Delfino ulteriori, insondabili malesseri nonché contrazioni ingravescenti, trascinarmi sotto la doccia chiedendogli poi di asciugarmi i capelli col phon perché io, da sola, non me la sentivo; andare a mia volta a dormire con un paio di tachipirine in corpo; svegliarsi all'1 e 46 spaccata (visto sul display dell'iPhone) con un sussulto, avvertire in qualche modo la certezza che sì, era proprio La Chiamata; scendere al piano di sotto non volendo svegliare nessuno, e cominciare a passeggiare avanti e indietro sotto gli occhi vigili e tonti di Laccio, «il cane che non è un pagliaccio».
Omen «Travagliare di notte ha un che di paurosamente atavico», ha commentato qualche post fa la mia lettrice Micol. Ci ho pensato parecchio, in quelle ore sospese, sbirciando le finestre dei vicini per vedere chi fosse ancora sveglio - molti, e ancora mi chiedo perché. E soprattutto cercando di capire come mai, oltre al classico dolore addominale da contrazione, io sentissi una specie di atroce puntaspilli irradiarsi lungo tutta la schiena. Va detto che la mia amica Michela mi aveva consigliato di usare un pettine come analgesico secondo la tecnica della digitopressione: si tratta di stringere, a ogni contrazione, un piccolo pettine in modo che i denti tocchino la linea immaginaria dove le articolazioni delle dita incontrano il palmo della mano (molto più facile a farsi che a dirsi). È una tecnica economica e priva di controindicazioni: dopo essermi procurata addirittura due pettini, oggi mi piace raccontare a me stessa che è grazie a loro se sono riuscita a resistere fino all'alba.
L'importanza dei pettini «Mamma, perché sembra che ti stia per esplodere la pancia?» (Pupa, ore 7.12). «Mamma, perché fai quella faccia?» (Pupo, ore 7.18). «Mamma, stai andando a far nascere la sorellina?» (all'unisono, 7.21). «No, vado dal dottore a fare un controllo». Lasciati i bambini a scuola siamo andati all'ospedale dove sapevo che sarebbe stata di turno la mia amica anestesista, io stringendo i denti e i pettini, Mike Delfino dubitando, talmente nonscialante era il mio comportamento, che fosse il momento giusto («Cinquanta euro che ci rimandano a casa»).
E invece «Signora, lei è dilatata tre centimetri!», è stato il responso. «Dove lo mettiamo un terzo figlio sui tre centimetri?». (Questo mi è suonato molto tipo: «A che tavolo li mettiamo i quattro con un cane? Se ne vanno entro le ventuno»). Un minuto dopo, florealmente piazzati nella stanza Tulipano, abbiamo chiamato la mia amica anestesista, neanche mezz'ora dopo provavo finalmente l'ebbrezza della prima epidurale della mia vita, peraltro contro il parere avverso dell'ostetrica Marina: «Signora, ha fatto due figli senza, mi crolla proprio ora?». (Domanda per voi: ma cosa vorrà dire in un contesto simile «Mi crolla?»). Sempre Marina, a una giovane ginecologa che passava di lì: «Poi quando toccherà a te non mi chiedere analgesie, perfusioni, rotture di sacchi amniotici. Ti faccio partorire io naturalmente». Ginecologa: «Corro a prenotarmi un cesareo».
La regina delle contraddizioni Ore 10.30, Marina, svelando finalmente l'arcano di un travaglio (per i miei canoni, essendo la Pupa e il Pupo nati rispettivamente in tre e due ore) così lungo: «Ahi, ahi». (Io): «Cosa, ahi ahi?». «Questa bambina è occipito-posteriore. Girata al contrario: con la nuca, anziché la fronte, poggiata contro il suo osso sacro. Sentiva mal di schiena, per caso?». «Sì. Ma cosa vuol dire, in concreto, questa posizione?». «Ah, niente di che. Diciamo che così non nasce». «Come, non nasce? Me la tengo per sempre nella pancia?». «O facciamo un cesareo, o la facciamo girare, o non nasce». «E come la giriamo?». «Lei potrebbe, in travaglio, assumere una serie di posizioni che le indicherò, schiacciando per esempio la pancia col suo corpo, mettendosi carponi, alzando la gamba destra nella posizione del cane che orina, e mantenere queste posizioni per un dato tempo, per convincere la bambina a ruotare lentamente su se stessa, avvitandosi esattamente fino al punto desiderato, cioè l'opposto di come è ora». «Sembra, ehm, facilissimo». Col senno di poi mi chiedo, ma secondo l'ostetrica Marina come avrei fatto senza l'epidurale?
Roba buona Con l'epidurale peraltro si ottengono una serie di effetti fichissimi. Al primo shot ho detto, «Wow! È come portare le chiappe dal dentista». Si può financo ironizzare sulla propria e altrui sorte. Alle urla della signora della stanza vicina: «Questa si sta facendo un giro sul gigacoaster di Gardaland». Mike Delfino però ha commentato: «Avverto minor partecipazione emotiva rispetto all'altra volta. Poiché non stai soffrendo, il mio ruolo mi pare più marginale che mai». Ignorato il commento e finito l'effetto dell'epidurale, verso mezzogiorno, la mia amica mi ha dato un'aggiuntina. A quel punto non sentivo dolore, ma ho perso il contatto con le gambe. L'ostetrica Marina ha infierito: «Il travaglio è così lento per colpa dell'epidurale». Bugia, non sei figlia di Maria! ho pensato subito, e infatti era così lento, ho scoperto poi, per la posizione occipito-eccetera. «Che facciamo, le mettiamo due gocce di ossitocina, così andiamo tutti a casa?», ha aggiunto un minuto dopo Marina, con il consueto garbo. «No, rompiamo il sacco», ha ordinato la ginecologa.
Quando il gioco si fa duro Di lì in poi le cose hanno preso un'improvvisa accelerata. Da una dilatazione di cinque centimetri - tanto avevo guadagnato in tre ore - col sacco rotto nel giro di mezz'ora sono arrivata a dieci. Le cose e anche la bambina, a quanto pareva, si stavano mettendo per il verso giusto. Ho capito che la situazione era un po' spessa perché al mio capezzale (è una vita che aspetto di poter usare l'espressione «al mio capezzale») si sono materializzate, al gran finale, due ginecologhe, oltre all'ostetrica e all'amica anestesista («Volete che esca? Non vorrei rovinarvi un momento di intimità». «Resta, non mi interessa neanche se mi sfila davanti il miglior teatrino di Arcore»). Mike Delfino, da dietro la mia spalla: «Rimango un po' defilato, non voglio perdere del tutto la poesia dell'evento-nascita». Ginecologa 1: «Tre spinte di quelle giuste e conosceremo finalmente questa bambina». Ostetrica Marina: «Spinga quando si sente di farlo». Io: «Non sento niente (spiritosona), dovete dirmi voi quando». Ginecologa 2: «Prenda fiato... ora... spinga!». Ginecologa 1: «Due spinte». Ginecologa 2: «Prenda fiato. Ma che è, Iron woman? È bordeaux, respiri!». Io: «Nnngggh». Ginecologa 1: «Una spinta».
Un'altra strada A quel punto è uscita la testa della Piccolissima e io non ho capito più niente. Mi hanno millimetricamente guidato attraverso la spinta successiva, spinga, si fermi, respiri, mentre la controversa ostetrica - tuttavia tecnicamente impeccabile - le aspirava i liquidi dal naso e dalla bocca. E poi ancora respiri, si fermi, spin... no, si fermi, spinga! Ora! E poi la voce di qualcuno, rivolto a Mike Delfino, Papà, prema quel pulsante, e io ho pensato premilo, sì, quel campanello, devono sentirla tutti, nostra figlia che nasce, e poi qualcosa ha suonato dentro la mia testa e anche fuori, e ho sentito lei che sgusciava nel mondo, poi lei che piangeva, Mike Delfino che piangeva, l'anestesista semprebenedetta che piangeva, l'ostetrica Marina che bofonchiava tutto sommato di soddisfazione. Allora ho riso, ho riso moltissimo per questa nuova microscopica meraviglia destinata ad aprire, come mi ha scritto un amico, «un'altra strada tra le strade del mondo». E scusate se ci ho messo otto giorni a raccontarvela, ma a volte lo spazio bianco è meglio di qualunque riga scritta riusciamo umanamente a immaginare.
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