Ho traslocato su erounabravamamma.it

Vi aspetto!

martedì 31 marzo 2009

Comprare una borsa o fare un figlio, questo è il dilemma

I grandi misteri/1
In tutti gli uffici ci sono persone che hanno fatto carriera e non si capisce bene perché.
Bene, anche nel mondo delle mamme è così. Ci sono donne che hanno fatto figli per caso (o così sembra). Erano lì tranquille che passeggiavano e op! Uno spermatozoo le ha colpite, fecondandole su due piedi. Fosse stato per loro, si sarebbero volentieri occupate di altro.
Dico questo perché, nel suo commento a un post di qualche giorno fa, Anna scriveva: "La cosa più inquietante è che spesso le mamme più spietate sono anche le più eleganti, chic, griffate e alfabetizzate. Insomma, quelle che 'ah, no io delle baby-sitter non mi fido, di quelle straniere poi!'. Per la serie: il figlio è mio e me lo rovino io. Evviva le colf, le badanti, le baby-sitter, le portinaie cingalesi. Magari insegneranno ai nostri pupi a dire 'gracias' o 'pinestra', ma almeno gli risparmieranno 10 anni di analista".
Io credo che Anna abbia ragione. L'altra sera a casa di amici ho incontrato il clone di Britney Spears. Una Posh-Mamma (con due bambini) dall'espressione un po' robotica, il cui modello di vita è con un certo grado di probabilità Victoria Beckham.
L'ho vista pochissimo, un paio d'ore scarse, e spero molto di sbagliarmi sul mio conto. Ma una cosa è certa, avrebbe bisogno di un nuovo sceneggiatore che le metta a posto i dialoghi, perché nell'arco della pur breve serata ha snocciolato una serie di perle come: "Sono più innamorata di mio marito che dei miei figli. Almeno lui mi dà soddisfazioni. Non come questi rompiballe" (di uno e sette anni). Oppure: "Ah, come mi piace quando mio figlio" (un anno) "fa esattamente quello che gli dico. Di solito vuol fare di testa sua, e non capisco perché" (be', forse perché è un bambino e non un Playmobil?). E ancora, alla mia amica con neonato di tre mesi che, un po' frastornato, piangeva: "Non ti preoccupare, sta solo facendo i capricci" (capricci? A tre mesi? Uno di tre mesi, per essere in grado di "fare i capricci", dev'essere il figlio del demonio). La Posh-Mamma ha raggiunto l'apice parlando di non so quale borsa vista alla Rinascente. L'irrinunciabile oggetto è in vendita a più di 2000 euro. Lei ha guardato il figlio piccolo e ha - graziosamente sospirato: "Ah. Se non c'era questo qua, sicuro come l'oro che la compravo". E' così che si comincia a costruire l'autostima di un bambino. Sicuro come l'oro.

Pronto soccorso: se il vostro bambino inghiotte per sbaglio un litro di sciroppo

Come insegna la saggezza popolare, gli incidenti si chiamano così perché accadono
Riflessione parallela della mia amica Luisa, che è sempre una grande fonte di ispirazione per tutto ciò che riguarda i bambini (e non solo): "Finché non succede proprio a te, non ci pensi".
Bene. Ieri sera, è successo. Qualcuno - non svelerò il nome del colpevole. Ma non sono stata io, e nemmeno Mike Delfino - ha lasciato su uno scaffale, in bella vista, perfettamente ad altezza bambino, uno sciroppo pediatrico alle erbe.
Il preferito della Pupa.
Stavamo finendo di cenare. Lei aveva già mangiato e guardava il cartone di Nemo in un'altra stanza.
Io devo mettermi in testa che quando è troppo tranquilla vuol dire che sta architettando qualcosa.
Quando l'ho raggiunta con il biberon di lattino pre-nanna, ho notato una macchia sospetta sulla sua maglietta rosa.
Accanto a lei, sul divano, c'era il dannato flacone di sciroppo.
- (Io): "Pupa, cos'è questa macchia?"
- (Pupa): "Eh, sciroppo".
- (Io, allarmata): "Quanto ne hai bevuto?"
- (Pupa, orgogliosa): "Uno, due, te, quaqquo, cincio... sei sorsi!"
- "Come, sei?"
- "Eh, sì. Poi non ne volevo più".
- "Ma quanto tempo fa l'hai bevuto?"
- "Vediamo... Più o meno quando Nemo incontra lo squalo".

Grazie alle sue precise indicazioni ho stabilito che fosse passata mezz'ora. Non ero particolarmente allarmata, sia per la quantità ingerita che per il contenuto dello sciroppo, ma ho telefonato subito al Centro Antiveleni dell'ospedale Niguarda. C'è una linea di emergenza che si può chiamare sempre, da tutta Italia (eccola qui), e dall'altra parte un medico preparato e disponibile, che dopo aver indagato sulle componenti del farmaco ci ha indirizzato in farmacia. Quel sant'uomo di Mike Delfino ci è andato al volo con la Pupa, e lì, in diretta, raccontandole che era "zuppa di bottoni" le hanno fatto bere del carbone vegetale sciolto in acqua. Ostacola l'assorbimento delle sostanze nocive, ma va assunto entro un'ora: è una buona idea tenersene in casa una confezione.
Quando la Pupa è tornata (erano ormai le dieci e mezza di sera) ha voluto lavarsi i denti per mandare via il cattivo sapore, e ha insistito per lavarli anche a Pippo, che si era portata in farmacia per avere un po' di sostegno morale. Le ho fatto giurare che non avrebbe più toccato nessuna medicina, e l'ho messa a letto senza leggerle la storia della buonanotte. Lei ha protestato un po', poi si è arresa.
Ripeto: non ero particolarmente allarmata.
Però mi sono svegliata per andare a controllare che respirasse almeno cinque volte, la notte scorsa.
Oggi la Pupa sta benissimo. E' andata all'asilo tranquilla e serena.
In compenso Mike Delfino ha sognato per tutta la notte che la Pupa faceva i capricci per qualche non identificato motivo, e si è alzato con gli occhi pesti. Io invece ho il cervello che preme sfacciatamente contro la scatola cranica. Ma prima o poi mi passa.

lunedì 30 marzo 2009

Gelosia - Quando arriva un fratellino

Quando la Pupa deve annunciare qualcosa di importante, esordisce sempre con "allora"
La Pupa ha 3 anni e 10 mesi. Il Pupo 4 mesi e mezzo. Ultimamente devo dire che i loro rapporti sono molto migliorati. Prima che il Pupo nascesse temevo tanto la gelosia della Pupa da non riuscire nemmeno a confessarle che ero incinta. E' stata lei a smascherarmi, all'inizio del sesto mese, con un dialogo che ricorderò finché campo:
- (Pupa): "Allora".
- (Io): "Dimmi, Pupa."
- (Pupa): "Se è un femmino lo chiamiamo gattino. Se è una femmina, gattina".
- (Io, fingendo indifferenza): "Ma chi, scusa?"
- (Pupa): "Eh, il fratellino. O la sorellina. Quello che hai nella pancia. Sai, prima c'ero io. Poi era vuota. Adesso c'è un fratellino oppure una sorellina".
- (IO): "Ah".

Quando il Pupo è nato, per la Pupa è stata un duro colpo. L'abbiamo ricoperta di regali e di attenzioni, ma - ovviamente - non è bastato. Se prima dell'arrivo del secondogenito si avviava all'asilo, al mattino, con in faccia la scritta "Sto per essere deportata", dopo ha cominciato a buttarsi per terra, aggrapparsi agli stipiti e rotolarsi sul marciapiede urlando.
Nei confronti del Pupo stesso, il suo atteggiamento oscillava: o lo ignorava o lo randellava. Una volta l'ho sorpresa che cercava di schiacciargli gli occhi con le dita. Interrogata su cosa diavolo stesse facendo, ha risposto: "Eh, mi sembrava un pesce al mercato." In seguito mi ha detto: "Mamma, ma io non lo volevo, il fratellino. E non gli voglio neanche bene." Quando le ho risposto: "Non sei obbligata a volergliene. Non ti preoccupare", mi è sembrata sollevata.
Più di recente, piano piano, le cose sono cambiate. Il fratellino (o micro-fratellino, come lei lo chiama) si è visto assegnare ruoli piuttosto importanti nei giochi di ruolo della Pupa. "Mamma, il fratellino è Little John, l'assistente di Roby Nudo". Ma soprattutto: "Mamma, io sono Julien, il re dei lemuri di Madadascar. Bau" (Mike Delfino, ovvero il mio compagno, n.d.r.) "è Maurice, il mio assistente. E il fratellino è Mortino, il più piccolo dei lemuri". Chi ha visto Madadascar (!) sa che Mortino, a dispetto del nome infausto, è un lemure grazioso e simpatico. "E poi, quando cresce, cosa diventa?" le ho chiesto io. "Niente. Non diventa niente. E' nato Mortino e Mortino resterà per tutta la vita".
Mi sono sembrati comunque segnali incoraggianti. Ieri sera, la svolta (una delle tante. Con i bambini ci sono sempre un sacco di svolte): eravamo a cena da amici. Per provocare scherzosamente la Pupa le ho detto, come mi era già capitato in un paio di occasioni: "Allora, Pupa, vuoi che lasciamo qua il fratellino e che al suo posto ci portiamo a casa il gatto?". Lei mi ha guardato seria, puntandomi il ditino contro. "No, mamma. Adesso mi sono un po' affezionata. Allora, smettila di voler lasciare il micro-fratellino in tutti i posti".

sabato 28 marzo 2009

Metodi infallibili per fare addormentare un neonato

Canti tibetani e altre curiose strategie
Scrive Paolo, che non è ancora padre ma che sarà (spero presto) un padre fantastico: "Dicono che chi non ha figli non può sapere. Ma sbagliano. Io provo sempre a cantare. E a volte si addormentano (non quelli di prima, ma i bambini). Canto canzoni che non esistono, con suoni al posto delle parole, e strofe che si ripetono sempre uguali. E facendolo li tengo (sempre i bambini) a contatto con il mio torace. Secondo me sono le vibrazioni delle corde vocali, e non la canzone in sé, a cullarli fino al sonno".
Paolo ha ragione. Mio padre, che ha tre figli e due nipoti, nei decenni ha affinato la (quasi infallibile) tecnica da lui denominata "del canto tibetano". Si tratta di un gorgheggio basso e rassicurante, che sale dalle viscere, ed è simile a questo (provate a fare clic sul cavallo di sinistra. Poi, per curiosità, sugli altri. Addormentamento a parte, è spassoso per gli adulti e diverte molto anche i bambini, dai tre/quattro mesi in su). La melodia è semplice, poche note acciambellate l'una sull'altra; chiunque, con un po' di impegno, può produrne una simile. E' uno dei casi in cui gli uomini (padri, nonni, zii acquisiti, amici in transito) giganteggiano sulle donne, per via della voce profonda. Con un po' di pazienza, un uomo dal timbro appena più corposo di quello di Farinelli può addormentare anche il neonato più riottoso. Altri consigli sul tema nei prossimi post, e intanto, se avete voglia, raccontatemi le vostre strategie...

mercoledì 25 marzo 2009

Scherzi a parte, due o tre consigli sull'allattamento

Dicono
Dicono che allattare al seno sia vantaggioso per un sacco di motivi. Costa poco. E' pronto all'uso. Pratico (può capitare in effetti che usciate dimenticandovi a casa lo scaldabiberon, ma le tette ce le avete sempre con voi, si suppone). Fa pure dimagrire, dicono. In teoria è vero perché chi allatta consuma 600 calorie supplementari al giorno, ma in pratica per non perdere il latte la neomamma media ne ingurgita 6000, di calorie (e quindi al netto dell'operazione ingrassa un chilo a settimana). Si fanno pasti frequenti, alle ore più strane. In allattamento raccomando una dieta varia, e a onor del vero va detto che si impara a mangiare di tutto, compreso il triplo concentrato di pomodoro e i dadi da brodo: uscire con un neonato è difficile, a volte il frigo è vuoto. Si diventa brave ad allattare anche quando si è in pubblico, e nel giro di poche settimane ognuna trova il metodo migliore; c'è la disinvolta che allatta tranquilla in piazza, la vergognosa che va in giro con un burka per tetta, ma insomma, bene o male tutte se la cavano. L'incubo vero è che bisogna bere, bere, bere - chi dice tre, chi addirittura quattro litri al giorno.
Ora. Qualcuno tra i furbetti che raccomandano di farlo ha idea di quanto tempo ci voglia a bere quattro litri di roba, e di quanto sia noiosa l'operazione considerato che non un singolo bicchiere di Negroni può essere inserito nel cumulo di liquidi necessario a comporre i quattro litri? E si rendono conto, questi furbetti, di quante volte sia di conseguenza necessario andare in bagno a fare pipì (anche considerato che la vescica delle donne subisce gravi affronti durante la gravidanza e soprattutto durante il parto)?
Una cosa è certamente vera: per motivi squisitamente scientifici allattare fa bene alla mamma (diminuisce il rischio di tumore al seno, come potete leggere qui) e al bambino (oggi come oggi: se la Pupa e il Pupo buscano un malanno, la Pupa quasi certamente sta a letto una settimana con la febbre alta; il Pupo, ancora allattato, grazie ai miei anticorpi se la cava in tre giorni, e senza febbre). Già solo per questo fatto vale la pena di continuare a farsi ciancicare i capezzoli da voraci quanto adorabili creaturine. Per il resto, con poche eccezioni - e in genere si tratta di squilibrate come Salma Hayek- ogni neomamma sogna il giorno in cui riuscirà a staccarsi la propria personale, minuscola cozza di dosso, e tornare a essere nudo scoglio. In attesa di quel giorno, due accorgimenti: bere tisane fa bene, purché contengano fieno greco (tutto il resto è più o meno fuffa, come spiegato chiaramente qui) e, se non volete perdere troppi capelli e diventare tachicardiche (può succedere se oltre a non dormire avete un deficit di magnesio e potassio), non dimenticatevi un integratore di vitamine e minerali. Ce ne sono tanti in commercio, anche di molto famosi. Evitate le note marche e affidatevi a un generico, e soprattutto lasciate stare quelli che sulla confezione hanno in bella evidenza la scritta "specifico per gravidanza e allattamento". Se confrontate i componenti con quelli della formulazione tradizionale, scoprirete che sono pressoché identici. Ma che, come tutte le cose pensate per le mamme, costano il doppio o il triplo.

Storie vere di vita vissuta: perché ero una Pessima Madre

Mamma Igiene e Mamma Anna
Questo blog è appena nato e già funziona meglio del confessionale del Grande Fratello. Due lettrici, Mamma Igiene e Mamma Anna, si sono auto-denunciate. Non hanno allattato al seno i propri figli. La polizia postale è sulle loro tracce. Ecco le loro dichiarazioni, tratte da commenti recenti ai miei post, che pubblico in homepage perché tutti possano leggerle:
Anna: "Per mia fortuna non ho avuto il baby-blues né al primo né al secondo figlio. In compenso però hanno tentato di farmelo venire tutte le ostetriche che ho incontrato. Non potendo allattare, sono passata direttamente nella categoria delle Pessime Madri! A sentir loro, tutte le malattie che i miei bimbi avrebbero avuto: dall'influenza al colera passando per la miopia, il ginocchio valgo, le carie e la peste bubbonica sarebbero dipese dal fatto che non sono riuscita ad attaccarli alla tetta. I miei torelli per fortuna hanno sfatato la leggenda e quando il grande è andato al nido e la pediatra mi ha detto: 'complimenti! E' il bambino che ha fatto meno assenze per malattia, si vede che ha allattato a lungo!', mi sono tolta la soddisfazione di risponderle: 'Certo! Nidina 1 per i primi 6 mesi e Nidina 2 fino all'anno!'. Adesso però mi domando: il fatto che sia ciuccio in matematica e non pensi altro che all'Inter non dipenderà dal tipo d'allattamento?"
Ed ecco il commento di Igiene (tra l'altro, è lei stessa a spiegare il perché di questo bizzarro nome): "Ah, la sterilizzazione... in quanto pessima madre (così credevo) non sono riuscita ad allattare il pupo al seno ... quindi la sterilizzazione è stata un obbligo/ossessione: povero figliolo, privo degli indispensabili anticorpi contenuti nel sacro latte di mamma. Ho comprato un mitico sterilizzatore a vapore (per altro, devo ammetterlo, comodissimo) per la modica cifra di circa 100 euro. Sterilizzava 6 bibe alla volta, che poi io estraevo con pinzetta anch'essa sterilizzata tenuta con mani pulitissime e che poi riempivo con latte in polvere tramite apposito misurino livellato con precisione scientifica tramite coltello anch'esso sterilizzato, in una cucina il più possibile priva di germi. Non sopportavo che nessun altro lo facesse, perchè solo la mamma garantisce l'igiene. Mio marito mi chiamava Igiene invece di Irene. Felice dell'efficientissimo macchinario, ci sterilizzavo anche i ciucci. Avrei voluto sterilizzarci anche i giochini, ma al primo tentativo (tre bellissime chiavine in plastica tutte colorate) il giochino suddetto si è sciolto".
Igiene, Anna, un accorato appello: consegnatevi alle autorità. Quante altre lettrici di questo blog si sono macchiate della stessa colpa? Ragazze, fatevi coraggio: con noi potete parlare.

martedì 24 marzo 2009

Il mito della sterilizzazione

Ho visto cose che voi neomamme...
Il marketing per l'infanzia è quanto di più diabolico la mente umana abbia mai concepito. Non c'è creatura più vulnerabile di una neomamma, che "per il bene di suo figlio" farebbe, e soprattutto acquisterebbe, qualunque cosa. Torneremo sull'argomento; per ora limitiamoci a parlare di sterilizzazione. Il suo mito fa leva, tra l'altro, su una delle paure più radicate e profonde degli esseri umani di sesso femminile: quella dei germi. Le aziende fatturano zilioni seminando il panico tra oneste madri di famiglia con domande terroristiche tipo: Lo sapevi che tappeti umidi, asciugamani e accappatoi sono il territorio ideale per la proliferazione di muffe?
- (Mamma): “Accidenti, no, non lo sapevo. E cosa faranno queste muffe? Salteranno addosso al mio bambino e se lo mangeranno?”
- (Azienda di prodotti per la sterilizzazione): In effetti no. Puoi salvarlo, ma solo se sterilizzi tutto con il nostro portentoso ritrovato, additivo disinfettante e battericida. È un po’ costoso ma è l’unico modo per proteggere la tua dolce creatura.

È facile tenere una neomamma in condizioni di sudditanza psicologica con simili minacce. Quale donna vorrebbe vedere suo figlio assalito dalle muffe? Soprattutto nel primo mese di vita del neonato, si affannano a ripetere i produttori di sterilizzatori, è essenziale che ogni oggetto – tettarelle, ciucci, vestitini, biancheria, aria che il bambino respira - sia assolutamente sterilizzato, sempre e in modo efficace.
Non è vero. Ci sono cascata anch’io, come il 99 per cento delle donne, e non volendo comprare uno sterilizzatore vero e proprio ho passato un mese a bollire ciucci e tettarelle a ciclo continuo, come se stessi preparando la zuppa di bottoni di Paperina. Un giorno mi sono detta che stavo esagerando, e riflettendoci (e documentandomi) in seguito ho capito che: sicuramente la pulizia è essenziale, ma un normale contatto con il mondo implica anche un normale contatto con i germi, che peraltro vengono distrutti efficacemente dalle cellule T del nostro sistema immunitario fin dalla nascita. Un ambiente non perfettamente sterile può anzi essere salutare per “allenare” questo sistema: le ricerche mostrano che i bambini regolarmente in contatto con i batteri, come i figli minori o quelli cresciuti in zone rurali, vanno meno soggetti ad allergie di quelli cresciuti sotto una campana di vetro. Ho conosciuto un bambino allevato nel terrore dei microrganismi: al mare, fino ai tre anni, non gli hanno nemmeno poggiare i piedi sulla sabbia “per paura dei funghi”. Lo trovate eccessivo? Anche la sterilizzazione nel primo mese di vita lo è. Altrimenti, pensateci, dovreste sterilizzarvi pure il seno (chissà perché, mi vengono in mente solo metodi dolorosi per farlo).

lunedì 23 marzo 2009

Fare la spesa con un bambino

Mamme isteriche
Fare la spesa con un bambino, come tante altre operazioni tutto sommato semplici, è un'impresa. Prima di avere un figlio non ci avevate mai pensato, ma le corsie di un supermercato, se affrontate con un Pupo nel carrello, sono gironi danteschi da cui è difficile uscire senza brusche impennate di adrenalina. La mamma-tipo però è allenata come e meglio che per la Maratona di New York, e di solito porta a termine il gravoso incarico senza danni cerebrali importanti.
Di solito.
Ci sono penose eccezioni.
L'altro giorno stavo godendomi la mia ora d'aria all'interno di uno dei templi della grande distribuzione - nemmeno troppo grande nel mio caso specifico - avendo affidato entrambi i Pupi alle amorevoli cure congiunte di tata + nonna. La vita mi sorrideva. Passavo lieve tra il banco della frutta e quello dei salumi, soppesando con gioia offerte specialissime, ingannevoli prodotti sottocosto, cibi in scadenza che normalmente non avrei degnato di uno sguardo ma che, avvolti dall'irresistibile aura del 3x2, guardavo con occhi da innamorata. Stavo godendomi la vista di orate e branzini periodicamente annaffiati di vapore acqueo da uno spruzzatore automatico (anche il pescivendolo era periodicamente annaffiato. A dire il vero non sembrava troppo contento) quando ho cominciato a sentire un coro di voci:
- (Bambina di circa 4 anni, piagnucolosa): "Mamma, perché mi dici di stare zitta?"
- (Madre isterica grave): "Perché non ti sopporto più".
- (Bambina): "Ma io non ho fatto niente".
- (Madre): "Non è vero che non hai fatto niente. Non ti sopporto più. Ora sparisci".
- (Bambina, tentando di far ragionare la madre): "Ma dove sparisco? Non posso sparire".
- (Madre non degna di alcuna compassione): "Sparisci nel carrello".
(...)
Cinque minuti più tardi, in un'altra corsia:
- (Madre-kapò): "Adesso basta, Alessandra. Ti detesto. Se non la pianti..."
- (Bambina, tremebonda): "Se non la pianto cosa?"
- (Madre): "Ti fracasso in faccia questa scatola di biscotti".

Ora. Istintivamente ho cominciato a parteggiare per la bambina. Qualunque cosa avesse fatto, non meritava quel trattamento. Che diamine, era pur sempre una bambina!
Essendo il supermercato piuttosto vuoto, presto tutti gli astanti hanno cominciato a seguire la vicenda. Ognuno tentava blandamente di intervenire, ben sapendo che è assai rischioso mettersi in mezzo in casi come questo. Il cassiere: "Ehi, piccola, vuoi una caramella?" (Grugniti della madre in risposta). La signora anziana: "Eh, sarà stanca, povera piccola". Una ragazza di passaggio le faceva smorfiette e sorrisi per distrarla. Il pescivendolo le ha mostrato un'aragosta viva. Ma la bambina, inconsolabile, continuava a piagnucolare, e la madre a sgridarla orribilmente. A me si stringeva il cuore, e per reagire a tanta ingiustizia compensavo gettando nel mio carrello regali per la Pupa. "Alessandra, ti tiro un ceffone che ti giro la faccia!": dentro una scatola di pennarelli giganti. "Alessandra, regalo tutti i tuoi giochi all'orfanotrofio!": dentro un album da colorare. "Alessandra, ne prendi tante che te le ricordi per sempre!": dentro i biscottini con gli animali della fattoria.
In coda alle casse, osservata ormai da tutto il supermercato impotente, la madre degenere cercava di giustificarsi. "Questa disgraziata si è messa in mente che non ha abbastanza giocattoli, e me ne ha chiesto un altro".
Tutto qui? E' stato il pensiero collettivo dei presenti. Una signora ha commentato: "Le ho incontrate prima, dal parrucchiere. Poverina, la bambina era esausta. Le cadeva la testina dal sonno, ma è stata buona e zitta per tutto il tempo".
Avrei voluto prendere la piccola Alessandra e abbracciarla. Al banco del servizio a domicilio mi sono trovata la pazza di fronte e le ho fatto un sorriso di finta solidarietà. Mi ha sibilato: "Eh, tu non hai figli, non sai cosa vuol dire". Le ho detto: "Ne ho due, più un terzo adottivo, il figlio della mia tata che aiuto tutti i giorni nei compiti perché non perda l'anno. Quando la Pupa pianta un capriccio penso sempre che sia stanca, e che voglia provocarmi per vedere dove può arrivare. L'unico modo per risolvere la cosa" - mi sono sforzata ancora di sorridere - "è distrarla. Le canto una canzone, le racconto una storiella. Il capriccio passa e ricominciamo a parlare normalmente".
Mi ha fulminato con lo sguardo e ha trascinato via Alessandra. Mi piace pensare che a casa abbia un padre affettuoso che l'abbraccia anziché sgridarla sempre.

sabato 21 marzo 2009

Come fare addormentare un neonato

Per dormire Pavarotti vuole il suo foularino
Che non tutti i neonati siano uguali non è un mistero. Alcuni si addormentano con relativa facilità, altri - come la Pupa - resisterebbero persino all'ipnosi e vanno abbattuti con una serie di ingegnose strategie, spesso combinate tra loro. Ci torneremo sopra, perché il tema del sonno è centrale per chiunque abbia figli, e ho una serie di consigli in merito. Per ora mi limito a constatare, con un certo sollievo, che pur avendo solo quattro mesi il Pupo è molto più conciliante di sua sorella. I testi sacri raccomandano di "educare i bambini al sonno" in modo che siano in grado di addormentarsi senza aiuti esterni a partire dai sei mesi di vita, che coincidono più o meno con il passaggio dalla culla al lettino. La cosa ha un suo senso anche perché è impossibile dondolare ritmicamente avanti e indietro un lettino.
Bene: il Pupo fa già tutto da solo! Quando ha sonno comincia a voltare la testa di lato, prima a destra, poi a sinistra, e si strofina gli occhi - segnali incontrovertibili. L'altro giorno mia mamma l'ha preso per metterlo a letto, e dopo cinque minuti è tornata da me sorridente.
- (Io) "E' a nanna? che bello."
- (Lei) "Sì, veramente bravo. Ma tu ricordati sempre: Pavarotti per dormire vuole il suo foularino!"
- (Io) "..."
Sono andata in camera a guardarlo per capire cosa intendesse. Il Pupo si era tirato il lenzuolino con cui dorme su fino al naso, e se l'era in qualche modo morbidamente avvolto attorno a collo e spalle. Ho ripensato alla frase di mia madre e mi è venuto in mente Big Luciano, con il suo inseparabile fazzoletto di seta.
- (Io, più tardi) "Però il Pupo non è così grasso".
- (Lei) "Be', insomma, non proprio. Ma diciamo che la stazza del Grande Tenore ce l'ha".



venerdì 20 marzo 2009

Sul perché fare figli (tra l'altro)

Innamorarsi di un bambino
Parziale risposta a un utente anonimo: che la fine di un amore abbia un prezzo, lo sanno tutti. Nessuno pensa mai che anche l’inizio di un amore ce l’ha.
Soprattutto l’inizio dell’amore più intenso e folgorante che ci sia: quello per il proprio bambino. Certo, una nascita è ciò che fa dire a una mamma (e anche a un papà): non riesco più a immaginare la mia vita senza. Però l’immensa crescita, e l’inaspettata ricchezza, e in generale il grande godimento che l’arrivo di un figlio porta con sé chiedono in cambio fatica, e perdita di autonomia.
Quando la Pupa ha compiuto un mese ho tirato le somme e ho fatto le seguenti riflessioni:
- l’ultimo libro che avevo letto era il manuale di istruzioni del tiralatte;
- per risparmiare tempo ormai usavo un unico detergente, il “bagnetto fisiologico primi mesi”, per lavare tutto: la Pupa, certo, ma anche il corpo (mio), la faccia (mia), i capelli (miei), i piatti, i bicchieri. Una sera che ero molto stanca ho usato la crema all’ossido di zinco al posto di quella per il contorno occhi;
- al mattino avevo cominciato a dilatare artificiosamente la durata della mia permanenza in bagno, portandomi i giornaletti come fanno i maschi, per ritagliare un po’ di spazio che fosse solo mio.
A fronte di tutte queste difficoltà, ero ormai irrimediabilmente innamorata della microscopica Pupa. In quel periodo un’amica con figlia coetanea della mia mi raccontò: “Due giorni fa mi sono svegliata e ho allattato Matilde. Abbiamo finito e l’ho tenuta ancora un po’ in braccio per farle fare il ruttino. Lei mi ha guardato negli occhi e mi ha sorriso. Era un sorriso sgangherato, storto e sdentato, ma un sorriso vero. Mi sono commossa e ho pensato: bene, adesso sì che sono inguaiata”. Rende l’idea.

giovedì 19 marzo 2009

Depressione post-partum (agh!)

Ragazze interrotte
La spiacevole faccenda del baby blues – in teoria, “piccole e inspiegabili alterazioni dell’umore che seguono il lieto evento”; in pratica, neanche il tempo di appendere il fiocco rosa o azzurro al portone di casa che già ti viene da piangere - è ormai, almeno in parte, nota. Riflessione a margine: secondo i dati statunitensi un fortunato 20% delle neomamme non ha alcun sintomo, mentre all’estremo opposto una su dieci scivola in una grave depressione post-partum. Ma se il dato relativo a questo disturbo non si discosta molto da quello della popolazione depressa in generale (8-10%), le cifre notevoli riguardano le donne della terra di mezzo. Le meschinelle né disperate né esaltate, quelle che soffrono “solo” di baby blues: sette su dieci. Cioè quasi tutte.
Secondo la letteratura medica il baby blues di solito fa la sua comparsa due o tre giorni dopo il parto. Ovvero, in genere, quando si torna a casa e si comincia a provare quel certo nonsoche. Si dice: mal comune mezzo gaudio, ma la consapevolezza che nello stesso momento altre donne sono in difficoltà proprio come te di solito non aiuta un granché. Avere il baby blues è un po’ come vivere costantemente al crepuscolo (un mio amico la chiama “l’ora del lupo”. Rende l’idea): passata l’eccitazione la neomamma si sente ansiosa, insoddisfatta, triste e instabile. Può darsi che provi immotivata irritazione nei confronti del neonato, del proprio compagno, di altri eventuali figli (il fastidio nei confronti della suocera non fa testo).
Per un’autodiagnosi facile e veloce: se vi succedono almeno tre delle seguenti cose, siete certamente preda del baby blues.
- Pianto senza ragione (una mia amica è scoppiata in lacrime perché, stendendo il bucato, si è accorta che alcune mollette non erano più in ottime condizioni).
- Difficoltà a prendere sonno (nonostante si sia sempre sul punto di svenire dalla stanchezza).
- Scarso appetito (per esempio: avete comprato tre tavolette del vostro cioccolato preferito. State allattando, avete bisogno di calorie supplementari e sareste autorizzate a castigarle tutte, invece misteriosamente ne graziate una, guardandola anche un po’ male).
- Last but not least, sensazione di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo, timore di sbagliare, vorticose riflessioni surreali tipo “anziché fare un figlio avrei fatto meglio a prendere un Labrador, piantare una betulla, adottare una pecora, infilare poesie nella casella della posta degli sconosciuti, diventare un’importante allevatrice di lumache”.
Gli stimoli esterni vorrebbero la neomamma serena e appagata. E prima di partorire lei pensava che sarebbe stato così.

Diventare mamma

Tutte le strade portano a te
Ci sono domande sciocche, inutili e crudeli. Domande che non andrebbero mai fatte. Eccone una: “La maternità è l’esperienza più bella della tua vita?”. Provate a rispondere qualcosa di diverso da “Oh, certo, è la cosa migliore che mi sia mai capitata”.
Pensateci un momento: frasi come “Be’, diciamo la seconda in classifica, dopo l’anno di studi a Barcellona all’università”, o anche solo “Credo di sì, ma mi prendo un po’ di tempo prima di dare un parere definitivo” vi appiccicano immediatamente addosso l’etichetta di Pessima Madre.
I segnali dal mondo fuori non lasciano spazio a dubbi interpretativi: noi neomamme dobbiamo essere felici, ringraziare la sorte benigna perché ora abbiamo un bimbo; in Italia, paese da anni inchiodato al triste numeretto di 1,3 figli per donna o giù di lì, c’è chi ne fa due ma pure chi ne fa zero. Quindi, non tutte possono sperimentare la nostra stessa gioia.
Ma cosa rimane davvero, dopo una nascita, di quello che abbiamo tanto a lungo sognato durante l’attesa? Cosa resta nell’aria dopo che la polvere si è posata - dopo le prime, confusissime ore trascorse in ospedale a passeggiare su e giù tra la stanza e la nursery, a ricevere orde di parenti e amici in visita, tra prove di allattamento, sedute collettive di cambio pannolino e riflessioni improbabili, da “E se me l’hanno scambiato in culla?”, a “Sono stata io?” oppure, più semplicemente, “E adesso?”

Il secondo figlio è più facile. Decisamente

Di tutti i dolori, quello del parto è il più felice
Il martedì mattina, grazie al mio talento affabulatorio, ho convinto il ginecologo di turno a indurmi il parto, che abbiamo programmato per la sera stessa. Verso l’ora di pranzo, nel tentativo di evitare il ricorso alla chimica, un’ostetrica pietosa mi ha fatto una manovra che si chiama “scollamento delle membrane”. Niente di traumatico. Volgarmente, è una “smanacciata” che può servire a fare partire il travaglio, se effettivamente il bambino è pronto a nascere.
E il Pupo, perdirindina, era finalmente pronto. Un’ora dopo la smanacciata sono cominciate le contrazioni, quelle vere.
Per lo stress dell’attesa il mio compagno si era fatto venire trentotto e mezzo di febbre. Le ostetriche e le infermiere passavano a confortarlo: “Come ti senti, poverino?”. “Vuoi una tachipirina?”. “Scusami caro, se sposti i riccioli dalla fronte ti misuro la febbre con il termometro per neonati”. “Poverino, guarda com’è pallido”. È colpa nostra se gli uomini sono viziati, riflettevo io contorcendomi nel solito corridoio.
Pensavo: tra poco si ricomincia a ballare. Probabilmente stavolta morirò.
E invece no.
Sono entrata in sala travaglio alle tre del pomeriggio. Dove ho partorito io ci saranno trenta ostetriche. Miracolosamente ho ritrovato la stessa della nascita della Pupa. “Giuliana!”, l’ho salutata illuminandomi. Mi ha guardato con aria interrogativa. “Tu mi hai fatto nascere la Pupa”. Mi ha sorriso, probabilmente pensando che fossi pazza.
Quel pomeriggio le sale travaglio erano tutte piene, e il personale appena sufficiente. Giuliana se n’è andata lasciandoci soli. Io deliravo con dignità, rivolta al mio compagno. “Il prossimo lo partorite voi, tu e mia sorella”, “Voglio un gatto”, “Fumerei una sigaretta”, “Vai via. No, resta qua!”, e altre innocue follie. E poi, non so perché, ho cominciato ad accompagnare le contrazioni con la voce. “A, E, I, O, U”, scandivo. Così, per passare il tempo. Presto mi sono accorta che, facendolo, riuscivo a sopportare meglio il dolore. Ma è stata un’intuizione che veniva dalla pancia e dal cuore, una cosa che nessun corso avrebbe potuto insegnarmi.
Giuliana è passata a controllare come ce la cavavamo. Mi ha consigliato di alzarmi in piedi. Ho abbracciato il mio compagno e abbiamo iniziato una lenta danza. Spostavo il peso da un piede all’altro, oscillando lentamente, sorretta da lui. Restavo in silenzio per la maggior parte del tempo, e quando il dolore era forte ripartivo con le vocali. “Aaa, eee, iii”. Dopo venti minuti Giuliana mi ha visitato. Sei centimetri. L’ho guardata negli occhi e le ho detto, “Dai, fammelo nascere”. Mi ha fatto salire sul lettino del parto, mi ha rotto le acque. Mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato la danza. Dopo cinque minuti le ho detto che volevo spingere. “Di già?”, mi ha chiesto lei scettica. Poi mi ha visitato, ha annuito e mi ha chiesto se me la sentivo di accovacciarmi. Perché no, ho pensato. Le novità non mi spaventano. Sotto di me, sul pavimento, Giuliana ha piazzato un telino blu. “Bastano quattro spinte?”, le ho chiesto buttando lì un numero a caso. “Se proprio ti impegni molto”, ha risposto lei. Il mio compagno mi teneva la mano. Io sudavo per lo sforzo, lui per la febbre. L’ho guardato e ho pensato: okay. Posso farlo. non ho più paura. Rispetto all’altra volta, la differenza è tutta qui.
Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Giuliana, involontariamente comica: “Non ti sedere ora. C’è fuori la testa. Ripeto, è molto importante: non ti se-de-re.” Mi è venuto da ridere, all’idea che avrei potuto schiacciare mio figlio nato solo a metà. Ho spinto per l’ultima volta – la quarta, chissà perché avevo indovinato – pianissimo, seguendo con precisione millimetrica le istruzioni di Giuliana.
E così ho deposto il Pupo, come una chioccia il suo ovetto . L’ho visto scivolare piano su quel telino blu. Ho pensato: che bel colore per nascere. Che giornata fantastica. E che orario meraviglioso. Erano le quattro e quarantaquattro del pomeriggio quando, per la seconda volta, sono nata mamma.

La nascita del Pupo/1

Siediti al sole. Abdica, e sii re di te stesso
A causa del fallimento totale di ogni corso preparatorio al parto della Pupa, per la nascita del mio secondogenito – il Pupo – mi sono rifiutata di fare alcunché. Non ho letto una riga, non ne ho parlato con nessuno. Evitavo l’argomento. Interrogata in proposito da amici e parenti, grugnivo. Pensavo, “Sarà quel che sarà. Tanto vale non perdere tempo con inutili lezioni di suono, respiro, canto, postura, bagatelle e pinzillacchere”.
Aspettavo l’evento con una sorta di quieta rassegnazione. Solo una volta mi sono arrabbiata, con il fidanzato new age di una mia amica che avrebbe partorito la sua primogenita pochi giorni dopo di me. L’ingenuo mi ha detto, “Cioè, l’esperienza del parto è fantastica. Cioè, te la vivi, e siete tu e il tuo bambino, ed è una cosa solo vostra, tu sei lo specchio del bambino e il bambino è lo specchio tuo, e cioè, devi attraversare il dolore come se fosse un’onda. Cioè, mitico. Anzi, maggico”. “Ehi, cretinetti, falla finita con questa sciocchezza dell’onda”, gli ho sibilato. Mi ha guardato senza capire.
Il Pupo, probabilmente intuendo che la sua mamma non aveva nessuna voglia di partorirlo, si è fatto attendere. Attorno alla data presunta del parto ho cominciato a sentire blande ma insignificanti contrazioni. Sono andate avanti una settimana. Una domenica mattina, esasperata, ho creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Ho pensato: è il mio secondo figlio. Ci siamo, lo sento. Una madre certe cose le sa. Tra poche ore stringerò tra le braccia il mio bambino.
Balle. Sono rimasta ricoverata in ospedale due giorni prima dell’avvio del vero travaglio.

D-DAY/4
Il travaglio è finito. Andate in pace (per ora)

Alla fine del travaglio, poco prima della nascita della Pupa, ho scoperto che nei neonati c'è un segreto.
A un certo punto il dolore è tanto intenso da essere un’entità autonoma. Va per conto suo. Se riesci a pensare a qualcosa, pensi che stai per morire. Poi pensi che non potevi ipotizzare niente di simile. Che non c’è modo di prepararsi a una sofferenza tanto atroce, che hai paura, che così proprio non si può. Preghi che ti lascino abbandonare il tuo corpo anche solo per un momento.
Poi qualcos’altro prende il sopravvento. Il tuo bambino è finalmente pronto, e allora mette in atto una magia.
Ho sentito da lontano una voce che diceva, “Adesso spingi. Sfrutta la forza della contrazione”. Ed effettivamente è stato come me l’avevano spiegato: mentre spingi, il dolore diminuisce. La testa del bambino che preme sul coccige ti anestetizza, tu non senti più male. Ci ho provato timidamente una, due, tre volte. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Funzionava. “Più forte, più a lungo,” mi incitava Giuliana. Allora ho pensato: che diavolo, io gli addominali li ho sempre avuti. E ho cominciato a spingere sul serio. Cinque minuti dopo è nata la Pupa.
È stato un attimo, è sgusciata via come un pesciolino, calda, palpitante, bianca di vernice caseosa. Una parte di me fuori di me. Durante la gravidanza avevo evitato di immaginarla, perché non sapevo come farlo. E all’improvviso, alle sei del pomeriggio, eccola. Ho guardato la finestra, ho visto l’inizio di un tramonto e ho pensato: io rinasco, con la mia bambina.
La sera stessa ho fatto a mia madre un resoconto dettagliato del travaglio. Alla fine le ho detto, “Avevi ragione. Comunque è stato bellissimo”.

mercoledì 18 marzo 2009

D-DAY/3
Perché chiedere l'epidurale è una buona idea

Anestesia o eutanasia
Alcune amiche mi avevano raccontato la loro esperienza. “All’inizio del travaglio, prima di andare in ospedale, ho addobbato l’albero di Natale”. “Io ho lavato le tazze della colazione”. “Io ho pagato online i conti del mese”. “Io sono andata a fare una passeggiata con il cane”. Prima della nascita della Pupa, la mia primogenita, in quei momenti convulsi in cui non riuscivo nemmeno a formulare una frase di senso compiuto l’unica cosa che mi veniva in mente era: io non ce l’ho avuto, l’inizio del travaglio. Sono partita subito dalla fine.
Per fortuna l’ostetrica, Giuliana, era bravissima. Nei pochi secondi di intervallo tra le contrazioni leggevo il suo nome sul cartellino che portava appeso al camice. Per ingraziarmela lo scandivo a voce alta: “Giu-lia-na. Che bel nome che hai, Giuliana”. Poi sentivo il dolore aumentare e ricominciavo a urlare: “Fammelanascerefammelanascere!”. Mia sorella leggeva sul tocografo l’intensità delle contrazioni con un anticipo di qualche istante rispetto al loro arrivo. Quelle particolarmente potenti le commentava come allo stadio: “Però! Vai così! Uuh, guarda questa!”. Poi mi stringeva forte e mi avvicinava un asciugamano perché lo mordessi al posto del suo braccio.
Poco dopo le cinque del pomeriggio Giuliana mi ha rotto le acque. Il liquido era tinto, mi hanno fatto una flebo di antibiotico nel braccio. Non ho sentito l’ago. “Puoi spingere”, mi hanno incoraggiato. Ho urlato ancora: “Mammamammamamma!”. Mia madre, che era fuori in sala d’aspetto, pur avendo un deficit d’udito è riuscita a sentirmi. E dribblando non so come ostetriche, ginecologi e infermiere ha attraversato tre stanze, un corridoio e mi ha raggiunto in quattro secondi netti. “Mi cercavi?”, mi ha chiesto, affacciandosi sorridente alla sala travaglio. “Era un’invocazione generica”, ho precisato cacciandola. Poi ho pensato: adesso chiedo un cesareo, o l’eutanasia.

D-DAY/2
Dalla luce, il bambino

Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer , che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.

- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.

Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.

D-DAY (IL GIORNO DELLE DOGLIE)/1

Fare un figlio è come lanciare nel mondo un amo a forma di punto interrogativo. Bisogna essere preparati, raccomanda qualcuno. Per fortuna e purtroppo, per quanto impegno ci si metta, in realtà non si è mai preparati abbastanza: né a metterlo al mondo, né ad allevarlo quando sarà nato. Ci si sforza di informarsi, confrontarsi, di mettere in fila i pensieri, di prendere le misure. Ma quel che si crede prima non corrisponde mai a quel che sarà dopo.

Eppure avevo letto un’infinità di manuali. Parlato più volte con tutte le amiche che ci erano già passate. E scrupolosamente interrogato mia mamma, che oltre a me ha partorito naturalmente due gemelli. Podalici.

- (Io): “Mamma, come è stata la mia nascita?”
- (Mamma): “Un travaglio lunghissimo. Almeno ventiquattr’ore, forse di più. Sei nata alle due e mezza del mattino. Dall’ospedale ho telefonato a tuo padre, che era rimasto a casa. All’epoca” (= quando gli indiani ancora assalivano le diligenze) “non era frequente che gli uomini assistessero al parto”.
- (Io): “E cosa gli hai detto?”
- (Mamma): “Niente, che avevo voglia di fare due chiacchiere. Lui continuava a chiedermi: è successo qualcosa? E io gli rispondevo, per prenderlo in giro: mannò, che cosa vuoi che sia successo. Poi non ce l’ho fatta più. Sono scoppiata a ridere e gli ho detto: è nata Paola”.
- (Io): “Hai sentito tanto male?”
- (Mamma): “Umpf”.
- (Io): “In che senso, umpf?”
- (Mamma): “Nel senso che poi te lo dimentichi”.
- (Io): “Ah. E la nascita dei gemelli?”
- (Mamma): “Eh, quella sì che è stata divertente. Avevo un pancione enorme. Quando mi sedevo mi arrivava alle ginocchia”.
- (Io): “E cosa c’è di divertente?”
- (Mamma): “Be’, all’epoca” (= quando i treni ancora andavano a vapore) “non si facevano le ecografie. Il mio ginecologo era una capra e non ha capito che la mia era una gravidanza gemellare. Mi diceva: signora, sento due battiti, ma uno è sicuramente l’eco dell’altro. Io insistevo: guardi che nella mia famiglia ci sono stati dei gemelli, guardi che sento calci e pugni dappertutto, o ho in pancia la Dea Kalì oppure questi sono due. E lui: signora, non faccia scene. È uno solo ma è molto grosso”.
- (Io): “Allora che hai fatto?”
- (Mamma): “Quand’ero di otto mesi e mezzo non riuscivo neanche più a entrare in macchina. Mi ero proprio stufata. Così, sapendo di avere una dilatazione passiva del collo dell’utero, una mattina che il mio ginecologo non è di turno mi presento in ospedale. Dico: ho le contrazioni. Mi visitano: signora, lei è dilatata, è entrata in travaglio. E mi ricoverano”.
- (Io): “Cioè, li hai imbrogliati?”
- (Mamma): “Sì. E siccome le contrazioni non c’erano a un certo punto l’ostetrica mi tasta tutta la pancia per capire come va e dice: ma signora, qui dentro ce ne sono due. Mi fanno una radiografia e arriva la conferma, sono gemelli. Mi danno un po’ di ossitocina, poi per farli uscire cominciano a saltarmi sulla pancia, letteralmente. Sai, erano girati tutti e due di piedi”.
- (Io): “Quindi hai partorito due gemelli podalici prima del termine, grazie a un bluff e senza cesareo?”
- (Mamma): “Sì, ed erano anche belli cicciotti. Non ti dico come ci è rimasto male il ginecologo capra, quando l’ha saputo”.
- (Io): “Ma hai sentito molto male?”
- (Mamma): “Bof”.

Con poche variazioni, è così che mia mamma – negli anni – mi ha sempre descritto i suoi parti. Aggiungendo ogni volta, alla fine, il commento: “Comunque è stato bellissimo”.
Credo che l’atteggiamento con cui noi ci prepariamo alla nascita di nostro figlio – più o meno serene, ottimiste, fiduciose – dipenda in larga misura da come nostra madre l’ha vissuto, e da come ce l’ha raccontato. Non che faccia la differenza, una volta al dunque: per quanto s’illuda, nessuna donna è mai davvero pronta. E in fondo il bello è proprio questo.