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martedì 7 aprile 2015

Quando frequentavo una rockstar

Qualche anno fa ho scritto un racconto - la Pupa andava ancora alla scuola materna, dunque doveva essere il 2009 o il 2010 - e poi l'ho lasciato lì. Mi sembra che sia arrivato il momento di pubblicarlo, dunque eccovelo. È un po' lungo, ma spero vi piaccia.

Save a prayer (Duran Duran) 

Stamattina portavo all'asilo la Pupa e assieme ascoltavamo la radio, è una cosa che le piace molto. A un certo punto ho cambiato stazione perché davano Firenze (canzone triste) di Ivan Graziani e al settimo giorno consecutivo di pioggia mi è sembrato davvero troppo. 

Certe cose ti colpiscono quando meno te l'aspetti. Come le note familiari di una ballata che scivola via interrotta solo dal rumore dei tergicristalli. «And I know there'll be/no more tears in Heaven», eccetera. Ho chiesto alla Pupa se le piaceva la voce di quel signore, e lei mi ha risposto: «Molto. Mi sembra morbida». La Pupa - come parecchi bambini di quasi cinque anni - ha lievissimi difetti di pronuncia che evito accuratamente di correggere. Perciò, per essere precisi, quel che le è uscito è stato: «Monto. Mi fembra morbida».

I Don't want to miss a thing (Aerosmith)
Nel febbraio '98 avevo appena finito l'università e lavoravo da pochi mesi nel settore spettacoli di un quotidiano. Mi pagavano diecimila lire a pezzo, diciottomila i più lunghi; su Eric Clapton di passaggio a Milano per presentare il nuovo album, Pilgrim, contavo di tirar fuori un bel servizio. Ricordo che stavo per andare a vivere da sola, e che la sera prima della conferenza stampa, mentre io preparavo scatoloni e valigie, mia madre alzò gli occhi dal libro che stava leggendo per chiedermi: «Sei emozionata?». Sono quasi sicura che non si riferisse al trasloco.
Difficile che i giornalisti chiedano autografi ai personaggi che intervistano. Alcune giustificate eccezioni sono previste. Paul McCartney, Mick Jagger, ma anche Laura Pausini se i tuoi nipotini hanno perso la testa per lei. In fila per uno scarabocchio di Eric Clapton alla fine dell'incontro eravamo almeno una trentina, ciascuno con la sua copia del cd promozionale in mano. «Thanks. My name's Paola, P-A-O-L-A». A pensarci bene una cosa che non so è dove si trovi, oggi, quel cd firmato.
Cosmic girl (Jamiroquai)
Un'ora dopo, mentre tornavo in redazione, mi squillò il cellulare. Non erano ancora i tempi in cui sul display appariva il numero del chiamante. «Buongiorno, sono la manager di Eric Clapton. Eric l'ha notata e vorrebbe il permesso di telefonarle, se lei è d'accordo». «Sì, certo, come no. Gli dia pure il mio numero, nessun problema, molto gentile».
Arrivata al giornale me la presi con i colleghi. «Siete dei deficienti, dovete smetterla di prendermi in giro. Lo sapete che mi piace coso e vi divertite alle mie spalle».
Loro mi guardarono senza capire. «Be', è che ho ricevuto la telefonata di una che si spacciava per sua manager».
«...»
«Cioè, vorreste dire che non siete stati voi?»
«...»
«Non vi credo. Guardate che a me non la si fa».
Smells like teen spirit (Nirvana)
La mattina dopo stavo percorrendo in auto il cavalcavia più lungo della città – come al solito andavo verso la redazione del giornale, in pratica vivevo lì – quando mi squillò di nuovo il cellulare. Non mi ricordo bene se all'epoca telefonare al volante non era considerato un gesto così grave o se io, avendo venticinque anni, semplicemente me ne fregavo.
«Hi, this is Eric».
«...»
«Hi, you there?»
«...»
«Paola?»
Eric Clapton – come molti inglesi di qualunque età – aveva lievissimi difetti di pronuncia che io evitavo accuratamente di correggere. Perciò, per essere precisi, quel che gli uscì fu:
«Pòla
Good vibrations (Beach Boys)
Al telefono in qualche modo riuscimmo a decidere di vederci il giorno dopo, un sabato, a pranzo. Passai ore a cercare qualcosa di carino da mettermi. Per fortuna all'epoca facevo la segretaria per un Rotary Club; e così mi presentai all'appuntamento vestita da segretaria del Rotary Club.
La pizzeria in pieno centro, scelta da lui, era uno di quei posti frequentati da vip, le pareti piene di foto del gestore del locale ritratto assieme a calciatori, attori, conduttori tv. Nemmeno eravamo entrati e già tutto il personale ci aspettava schierato: un tripudio di camerieri, bariste, maitre, responsabili di sala, tutti in fila rigidi come omini del calcio balilla, a farci strada. Che poi, che bisogno c'è di fare strada a qualcuno in un locale di trenta metri quadrati? Bisogna che tu soffra di maculopatia degenerativa oculare, per non capire dove devi andare.
Era – anche – uno di quei posti in cui pur di fare qualche coperto in più pigiano i tavolini gli uni addosso agli altri tipo vagone della metropolitana all'ora di punta. Quel giorno, in quel contesto, ero più rigida dei camerieri rigidi, ma negli anni ogni volta che ci ho ripensato ho riso al pensiero che invece per il nostro tavolo avevano riservato un angolo appartato, intere galassie distante dagli altri. E sulla tovaglia avevano appoggiato un bigliettino: «Dottor Clapton, X 2». Pensai: Dottor Clapton?
Kiss (Prince)
Nonostante le mie gravi incertezze linguistiche, i ventotto anni di differenza e il fatto che lui fosse il Dottor Clapton, l'incontro andò benino. Riuscii a ingoiare un'intera fettina di pizza, discutemmo di un anello che portavo, di una t shirt che indossava, mi chiese tante cose sulla mia famiglia e sui miei genitori. Forse parlammo un pochino anche di musica. Mi disse che amava l'Italia e che aveva tanti amici a Milano, che gli piacevo molto e che avrebbe voluto rivedermi, magari a Londra, chissà. Nel caso capitassi da quelle parti, che gli facessi il favore di avvisarlo. Mi salutò con un bacio veloce sulle labbra che mi lasciò di stucco, ma in seguito capii che lui baciava così le persone per affetto – anche la signora che gli puliva casa, per dire.
Due venerdì dopo, il giornale per cui lavoravo fallì e chiuse. Con i colleghi andammo a ubriacarci di grappa nel localetto di un amico. Incoraggiata dalla Nonino e da quei burloni con cui fino a due ore prima avevo lavorato, chiamai Eric Clapton alle undici di sera.
(Io): «Ciao, mi chiedevo cosa fai domenica».
(Lui): «Niente. Devo portare mia madre in un posto al mattino, poi sono libero».
(Io): «Ok. E lunedì, martedì, mercoledì, eccetera?»
(Lui): «Durante il giorno le prove del tour mondiale. Ma non esco prestissimo al mattino, e verso le cinque del pomeriggio sono già a casa. Poi la sera sono libero. Vieni a trovarmi?» 
Romeo and Juliet (Dire Straits) 
Nel 1998 non si compravano biglietti aerei last minute su internet. Volare costava abbastanza, e nonostante ciò il sabato mattina trovai tre amici disposti a venire a Londra con me il giorno dopo. Loro avrebbero pernottato in ostello; io, secondo gli accordi, in una delle case di Eric Clapton. «Non sta bene che io ti proponga di fermarti da me». Lui quell'anno faceva parte della commissione che giudica gli Oscar, e assieme guardammo un'ira di Dio di roba a cominciare da Titanic, sul mega schermo di uno dei salotti di casa sua, mangiando biscotti Digestive di cui lui era un grande fan. Mentre Jack-Di Caprio moriva congelato nell'oceano mi guardò con aria intensa, come colto da un trasalimento: «In effetti la mia casa è molto grande. Se non lo trovi offensivo o poco opportuno posso cedertene un'ala, senza che tu vada a stare da un'altra parte». 
Wish you were here (Pink Floyd)
Eric Clapton l'ho sempre chiamato Eric Clapton. Mai «Eric», men che meno con un soprannome. «Che fai il prossimo weekend?». «Viene a trovarmi Eric Clapton». «Bella maglietta, dove l'hai presa?». «Me l'ha regalata Eric Clapton». Per attirare la sua attenzione tossicchiavo o facevo un gesto con la mano. A volte mi intimidivo. A volte lui si accorgeva che ero intimidita e rideva. Mi sentivo sempre un po' fuori contesto: un'uggiosa domenica londinese andammo a un ritrovo degli alcolisti anonimi, una specie di festina per la fine del percorso terapeutico. Mi mise di fianco a uno stoccafisso («Paola, Nick. Nick, this is Paola») che beveva succo di mango e che trovavo noiosissimo. Dopo un po' mi chiese: «Ma è famoso anche da voi in Italia?». Capii in quel momento che era Nick Cave. 
No woman no cry (Fugees) 
Cose belle che si facevano con Eric Clapton: sfida a chi immerge il maggior numero di biscotti Digestive nel tè e poi mangia la brodaglia senza vomitare. Partite spietate e interminabili di calcio balilla in cui io venivo invariabilmente stracciata nonostante gli anni trascorsi a gareggiare in spiaggia nel ruolo del portiere. Sentirlo canticchiare Layla mentre scendeva le scale di casa mia. Ascoltarlo suonare la chitarra seduto sul divano. Andare al ristorante a Milano prenotando sotto falso nome per avere dei tavoli normali. A Londra invece era meglio prenotare col nome vero perché gli inglesi con lui sono molto garbati.
Love is a stranger (Eurythmics)
Sia io che Eric Clapton siamo del segno dell'Ariete. Testardi coraggiosi generosi e impulsivi. Acuti e ironici. Quando lui veniva in Italia, i miei amici mi pregavano di sganciare il nome del locale in cui saremmo andati, per potersi imbattere «accidentalmente» in noi. Deve aver pensato che Milano sia microscopica, o che io conoscessi decine di migliaia di persone, perché ogni volta che uscivamo incontravo qualcuno. Per caso.
Un mio amico, oggi noto giornalista musicale, all'epoca mi prendeva in giro per questa mia frequentazione. Una volta lo incontrò mentre era con me e cadde ai suoi piedi, in ginocchio, poi gli prese la mano. Abbastanza imbarazzante, ma Eric Clapton si inginocchiò a sua volta all'istante e i due restarono lì a guardarsi, gli occhi a un metro da terra, mano nella mano. Ariete=acuto e ironico.
(I can't get no) satisfaction (Rolling Stones)
Presto mi resi conto che non saremmo andati da nessuna parte. Il problema era che non riuscivo a capire se mi interessasse l'uomo o se invece il fatto che, insomma, «Eric Clapton is God». La seconda ipotesi però era più probabile. E mentre mi rimbalzavano in testa il suo anno di nascita e i nomi delle donne che aveva amato – Sheryl Crow, Naomi Cambpell, Lory Del Santo con la sua tragica storia – mi uscì finalmente un patetico discorsetto: «Sai, non voglio essere una tra le tante». Lui provò a opporsi. Aveva intenzioni serie, disse. Non gli credetti e, insomma, lo lasciai. Con grave imbarazzo restai a Londra altri due giorni a imbottirmi di Digestive; lui aveva messo il muso, mi rispondeva a monosillabi e per indispettirmi si riempiva la casa di certi artisti giapponesi che mi stavano anche molto antipatici. Questa del muso è una cosa che oggi capisco – l'orgoglio ferito, il maschio adulto eroe della chitarra e del rock liquidato da una ragazzina, eccetera – ma all'epoca mi fece uscire di testa.
Respect (Aretha Franklin)
Sull'aereo di ritorno da Londra pensai con insistenza per tutto il tempo: «Voglio precipitare». Invece atterrai a Milano e con l'aiuto di un amico interprete italiano-inglese gli scrissi una lettera formalmente impeccabile e straripante di sdegno. Dopo pochi giorni mi spedì indietro un pacco del tutto inatteso, con delle corde per basso marca D'Addario (gli avevo accennato al fatto che mio fratello, musicista in erba, le sognava, ma che per lui erano davvero troppo care) e un biglietto ragionevole e affettuoso che tra le altre cose diceva: «Mistakes and misunderstandings are always possible, when two people get to know each other». 
Bonus track: New York mining disaster 1941 (Chumbawamba) 
Frequentando Eric Clapton ho imparato diverse cose importanti, tra cui che la parola «misunderstanding» ha un bellissimo suono e che le persone intelligenti sanno ammettere di aver frainteso una cosa anche se hanno una certa età. Poi, che dovevo assolutamente studiare benissimo l'inglese, cosa che ho fatto. Infine, che quando mi aveva detto «Ho intenzioni serie» forse non mi stava prendendo in giro. Infatti pochi anni dopo ha sposato una ragazza americana non famosa, di un anno più giovane di me, da cui ha avuto tre pupe femmine. Lei faceva la hostess a un congresso in un grande albergo americano, lui aveva preso una stanza in quell'albergo, e si sono conosciuti così.
I dettagli del loro fortunato incontro me li ha raccontati proprio Eric Clapton anni dopo, quando ci siamo incontrati per un caffè. In quell'occasione mi ha anche confessato di avermi visto una volta in Autogrill – io, per la cronaca, stavo andando per lavoro a un concerto di Nek – ma di non aver avuto il coraggio di fermarmi, perché ero in compagnia di un ragazzo. Ho molto apprezzato la delicatezza, ma a posteriori dico che sarebbe stato bello salutarlo, quella volta, sulla Milano-Modena.

Soundtrack: Mentre scrivevo questo racconto ho ascoltato Songs from the Labyrinth, reinterpretazione della musica di John Dowland (vissuto nel '500) ad opera di Sting. I titoli delle canzoni che avete letto sopra invece sono quelli di una cassetta ingenuissima che avevo inciso per Eric. Non so cosa penserete di me a questo punto, però finalmente sono riuscita a togliergli il cognome.